“Emigrare significa rifiutare di non star bene in un posto ed imparare a non star mai più bene da nessuna parte.”
Le campagne emiliane danno molti spunti di riflessione. Permettono di guardare lontano nella brughiera, con la bruma mattutina che crea un velo, una sensazione di assenza di nitidezza. Quella dimensione tra sogno e realtà tipica della pianura padana. Più in alto, verso le dolci colline tra Parma e Piacenza, è possibile ancora oggi osservare una storia che parte da lontano, con le cittadelle fortificate che ricordano un mondo a passo d’uomo. L’osservazione della meravigliosa Castell’Arquato, un borgo fermo all’epoca medievale, con un castello risalente all’ottocento (inteso proprio 800 e non 1800), con la prima citazione del castro come “Castri Arquatense”.
A venti minuti di distanza troviamo il borgo di Vigoleno, rimasto fortunatamente intatto e anch’esso risalente al medioevo, con una fortezza e una chiesa romanica del XII secolo.
In questa terra che porta avanti molte tradizioni ne esiste una forse poco conosciuta: quella degli orsanti.
Il museo degli orsanti porta avanti la memoria, forse unica testimonianza in Europa, della tradizione girovaga e dell’arte di strada nata in questi luoghi.
In questo museo è possibile ricostruire la storia, i luoghi, i costumi e gli strumenti che venivano utilizzati già a metà settecento per questo teatro che può essere visto come un antesignano del circo moderno.
In specifico, con orsanti viene indicato quel fenomeno migratorio girovago, legato ai mestieri ambulanti, che ha coinvolto centinaia di persone tra settecento e ottocento e che è arrivato fino agli anni ’50 del novecento.
Gli orsanti si muovevano per l’Europa facendo esibire, nelle varie cittadine in cui si fermavano, animali ammaestrati tra i quali orsi (ecco perché orsanti), cammelli, dromedari, scimmie e pappagalli.
Gli orsanti partivano in particolare dalla zona che dividono la Liguria dall’Emilia Romagna, negli Appennini la zona dell’alta Val di Taro, alle pendici del monte Pelpi (in particolare dai comuni Bardi, Bedonia e Compiano (qui si trovava inizialmente il museo fondato nel 2000).
Erano organizzati in compagnie di più uomini che raggiunsero località anche molto remote dell’Europa, ritornando a casa ogni tre o quattro anni e in alcuni casi giunsero a possedere veri e propri circhi.
Viaggiavano a piedi anche per poter continuare a guadagnare “strada facendo”. I proventi di questa attività permettevano, alle volte, ai proprietari delle compagnie, di accumulare delle piccole fortune.
All’interno della compagnia ogni membro aveva un compito specifico: chi accudiva gli animali, chi si occupava dell’esibizione, chi raccoglieva le offerte e chi anticipava le tappe della compagnia facendo una sorta di réclame.
Le mete più gettonate erano la Francia, la Germania, la Svizzera, l’impero austro-ungarico, ma si sono trovate tracce della presenza di orsanti anche in Scandinavia, in Africa settentrionale, nel Medio-oriente, e in Russia.
In arte e musica esistono diversi riferimenti agli orsanti. Per citare due esempi il pittore italiano Antonio Ligabue ha rappresentato gli orsanti in due sue celebri opere “Il circo” e “L’orso che balla”, mentre il cantautore Vinicio Capossela narra del viaggio di un orsante nella sua “Di città in città (e porta l’orso)”.
Il museo degli orsanti rappresenta un’importante testimonianza dell’emigrazione girovaga come fenomeno realmente esistito. Le sue radici remote parlano di una vita difficile che ha cercato, nella migrazione continua, la soluzione alla sopravvivenza nelle remote zone appenniniche emiliane.
Per saperne di più consigliamo una visita al Museo degli Orsanti di Vigoleno.
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