Io farei così: compattiamo le macerie che tanto sono un problema per tutti, le armiamo per bene, e con il cemento facciamo un immenso cretto bianco, così che resti perenne ricordo di quest’avvenimento. (Alberto Burri)
Un viaggio nel cuore della Sicilia, in un periodo in cui è possibile vederla verde e lussureggiante, una primavera con un vento freddo ma che ha permesso di scoprire molte bellezze naturali e paesaggi inaspettati.
Il viaggio nella valle del Belice si è rivelato un sogno di verdi colline. La valle prende il nome dall’omonimo fiume che nasce nella Piana degli Albanesi (isola linguistica siciliana arberesche) per percorrere verso sud il territorio e sfociare vicino al parco archeologico di Selinunte (il più grande d’Europa).
Dolci alture ricche di vegetazione e uliveti, il fiume Belice parte dalla provincia di Palermo, percorre la parte orientale della provincia di Trapani per poi finire nel canale di Sicilia in provincia di Agrigento.
Una terra ancora poco esplorata ma già molto conosciuta grazie ad una doppia memoria: la tragedia del terremoto del Belice nel 1968 e l’opera di Burri che ricorda questo avvenimento.
Il Cretto di Burri (o cretto di Gibellina) è il nome con cui è conosciuto il Grande Cretto, opera di arte ambientale di Alberto Burri.
È stata realizzata in una prima fase tra il 1984 e il 1989 e successivamente completata nel 2015, nel luogo in cui sorgeva la città vecchia di Gibellina, completamente distrutta dal terremoto del Belice del 1968.
La genesi dell’opera si fa risalire alla distruzione della città di Gibellina (oggi chiamata “Gibellina Vecchia”).
La potenza del terremoto distrusse completamente la città, lasciando la maggior parte delle famiglie senza tetto.
La voglia di rinascita della città nacque dalla mente del sindaco Ludovico Corrao, che vide nell’arte un riscatto sociale della città; tra i numerosi artisti che vennero a titolo gratuito spiccò il nome di Burri.
«Andammo a Gibellina con l’architetto Zanmatti, il quale era stato incaricato dal sindaco di occuparsi della cosa. Quando andai a visitare il posto, in Sicilia, il paese nuovo era stato quasi ultimato ed era pieno di opere. Qui non ci faccio niente di sicuro, dissi subito, andiamo a vedere dove sorgeva il vecchio paese. Era quasi a venti chilometri. Ne rimasi veramente colpito. Mi veniva quasi da piangere e subito mi venne l’idea: ecco, io qui sento che potrei fare qualcosa. Io farei così: compattiamo le macerie che tanto sono un problema per tutti, le armiamo per bene, e con il cemento facciamo un immenso cretto bianco, così che resti perenne ricordo di quest’avvenimento.» (Alberto Burri, 1995)
Burri progettò un gigantesco monumento che ripercorre le vie e vicoli della vecchia città: esso infatti sorge nello stesso luogo dove una volta vi erano le macerie, ora cementificate dalla sua opera; i blocchi sono stati realizzati accumulando e ingabbiando le macerie degli stessi edifici.
Dall’alto l’opera appare come una serie di fratture di cemento sul terreno, il cui valore artistico risiede nel congelamento della memoria storica di un paese.
Burri non era nuovo a questo soggetto, riprodotto in molti quadri di medie dimensioni, i Cretti.
È visitabile percorrendo la strada statale 119 di Gibellina nel tratto che interseca la riserva naturale integrale Grotta di Santa Ninfa, tra l’omonima cittadina e il paese di Salaparuta, oppure venendo dall’autostrada A29 in direzione Mazara del Vallo.
L’opera venne realizzata parzialmente in una prima fase tra il 1985 e il 1989, rimanendo al tempo incompleta per mancanza di fondi; il completamento è arrivato solamente nel 2015, in occasione del centenario della nascita di Burri.
Il Cretto di Burri si inserisce in maniera quasi antitetica nel paesaggio verde della valle del Belice, con l’olivo che ormai rappresenta da molti secoli il suo territorio.
Le prime tracce della sua coltivazione nella Sicilia occidentale risalgono alla dominazione fenicia (VIII secolo a.C.) e continuò poi con l’insediamento dei greci con gli abitanti di Selinunte che coltivarono e propagarono l’olivo colonizzando vallate e terre fertili dell’interno, producendo olio, come dimostrano le macine rinvenute vicino al Tempio, risalenti al V secolo a.C.
Nel XV secolo d.C. si ebbe un incremento della produzione di olio di oliva, in seguito ad una forte migrazione di ebrei nel Trapanese, e nel XVIII secolo i Borboni impiegarono importanti risorse per aumentare ulteriormente la produzione di olio nell’area, piantando nuovi oliveti.
L’olivo era una coltura primaria della Valle del Belìce già nel 1600 ed è arrivata fino a noi con le splendide colline che disegnano ancora oggi paesaggi incantevoli.
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